Ogni tassello mancante alla memoria storica di Messina è un delitto commesso contro la sua cittadinanza. La Città dello Stretto in Italia, è stata ma non lo è più, uno degli scali principali della sua Marina Militare e mercantile. La determina di queste prerogative hanno origine nella storia più remota, legate alle attività mercantili di una delle maggiori città anseatiche nel Mediterraneo. Parlare d'impianti portuali per una città marittima senza dimenticare le origini della sua opulenza, dovrebbe stimolare i suoi testimoni, a rivangare dal passato, tutte quelle notizie necessarie per costruire l’entità portuale che le è dovuta. Invece, può capitare ai più curiosi, se volessero riscoprire le gioie di un passato importante, di trovarsi a dover affrontare tanti ostacoli, sintesi d'inefficienze più o meno gravi del suo apparato burocratico, incapace di sviluppare percorsi virtuosi legati alle vicende del suo bene maggiore, il mare e le sue strade. Ricordare un qualunque periodo storico, senza riuscire a raccontare singoli episodi, capaci di proiettare le caratteristiche dei suoi impianti sul grande rettifilo costiero a essa dipendente, permetterebbe di riqualificare le sue memorie patrie. Durante le prime decadi del regno d’Italia, la Città dello Stretto scontava le sue pretese politiche, al cospetto di una burocrazia reale contraria a mantenere quei privilegi, che avevano caratterizzato la storia messinese. Il re di casa Savoia e i suoi subalterni politici, affrontarono la questione meridionale, osservando i fenomeni sociali radicati in questi territori con un pregiudizio di fondo, legato all’ostilità di gran parte della classe dirigente formatasi sotto i governi della dinastia dei Borbone. Il porto di Messina è stato il fulcro di ogni iniziativa da cui la città trovava la sua ricchezza, esportando al di fuori del suo territorio provinciale esperienze ritenute positive, da tutti gli intermediari commerciali che l’ebbero a visitare per i rispettivi affari. Quella Messina a cavallo fra due sistemi amministrativi, aveva raggiunto altezze importanti al tempo in cui, il governo in carica le fu accanto, accompagnando le sue iniziative produttive, soddisfacendole con reiterata partecipazione verso quei diritti e quei privilegi che i messinesi sentivano di possedere.
Penisola falcata, particolare del bacino di carenaggio (1909)
Il nuovo corso politico, le ebbe a togliere il Porto Franco, il diritto di far circolare le sue merci all’interno della Sicilia che permettevano alle imprese di Messina, di sopravvivere alla difficile condizione economica che il governo filo-sabaudo ritagliò a tutto il sud, estromettendo di conseguenza, quegli uffici che in passato attraverso le attività portuali, avevano alimentato la sua burocrazia interna. In modo specifico il servizio di espurgo dei natanti all’ex Lazzaretto, il servizio di sosta e ormeggio nel litorale oggi detto di San Francesco di Paola al Ringo, lo sbarco e l’ancoraggio dei vapori per servizio di posta e passeggeri, adesso limitato nel traffico, estromettendo il porto di Messina dalle tratte internazionali, lasciandole l’uso a servizio dei valori postali alle rotte nazionali. Il nuovo corso politico prevedeva l’annullamento di quelle attività portuali dei privati, soprattutto se stranieri, limitando prima la possibilità di ricarico sui relativi contratti e commissioni legati ai traffici del Porto Franco, e successivamente, con studiati ostacoli burocratici, annullava la possibilità di quelle compagnie di agire indisturbate a condurre affari sui propri porti nazionali facendole decadere. Se al tempo dei Borbone era stato possibile impiantare un bacino di carenaggio in carpenteria di legno e murature nonché, un cantiere navale molto attivo fin dagli inizi dell’ottocento, con l’avvento degli impiegati di casa Savoia tutto cambia in peggio. Ufficialmente il governo di Torino permette di realizzare già a partire del 1862 un moderno bacino di carenaggio sulla penisola di San Rainieri. Le cronache del tempo attraverso la stampa annunciano la felice concessione reale alla città. In seguito a quest'apertura di credito, i fatti connessi allo sviluppo dei progetti impiantistici del bacino, nascondono dei retroscena davvero clamorosi. Ufficialmente il bacino di Carenaggio del Porto di Messina entrò a regime nel 1876, dopo una lunga serie di ritardi ingiustificabili, legati a strane coincidenze sfortunate.
Quello che invece è nascosto alla storia moderna, si ritrova in molte carte dell’epoca, e queste sono in grado di raccontarci un’altra verità. Messina dal 1862 al 1876 diventa un caso nazionale proprio per l’affare della realizzazione del bacino di carenaggio. Una mucca da spremere dagli speculatori. In fondo è una vecchia storia, che in Italia si ripete ciclicamente fin dalle origini della sua fondazione politica. La corruzione che è sempre esistita nel Bel Paese, qui trovava un canale privilegiato, partecipando nel mondo speculativo messinese, in bilico fra l’età dell’oro irrimediabilmente perduta, e il nuovo proscenio ricco di emergenze infinite. La programmazione della spesa calcolata sul costo indicativo rispetto ad altri impianti esistenti, qui troverà a causa di tanti impedimenti, un fermento dei costi che alla fine del suo ciclo infernale sarà pari a un aumento del 400%. Lo scandalo, perché di questo si tratta, finirà nelle fredde aule del parlamento subalpino, proseguendo la sua infelice corsa, nelle aule fiorentine del governo, per concludersi in quelle della capitale romana. Durante il tempo storico in cui la capitale d’Italia passerà da tre capitali diverse, a Messina si giocava un’altra partita, che diventerà il metodo in auge ancora oggi per truffare le casse nazionali. Uno spaccato di un mondo perverso, quello presente in quella nazione bellamente spiegato da un lavoro di Sergio Turone, dal titolo inequivocabile Corrotti e corruttori, dall'Unità d'Italia alla P2, mette a nudo le responsabilità di un uomo potentissimo in quel momento, il generale Luigi Federico Menabrea, uomo di fiducia di Vittorio Emanuele II, gerarca militare presente a Messina fin dalla prima ora al comando di due battaglioni già nel 1861, che ricoprì le maggiori cariche burocratiche di quel regno, fino al grado di capo del governo. Ma giunto in età avanzata divenne Ministro del Ministero dei Lavori Pubblici, quindi l’uomo giusto al posto giusto per far i comodi degli amici degli amici. Ricoprendo quella carica, le sue opere pubbliche vedevano innalzare i costi d’appalto all’inverosimile. Fu indagato a suo tempo per il crack della Banca Romana e messo in mezzo in mille inchieste. Il suo più fidato attendente in queste opere di malaffare fu l’ingegnere capo del Genio Civile di Messina, Vincenzo Schioppo originario della provincia di Biella, riscuotendo le simpatie della casa regnante. Insieme a tanti altri faccendieri dell’epoca, lor signori, fiutarono una grande occasione; l’appalto del bacino di carenaggio di Messina doveva diventare una specie di bancomat, per la compagnia segreta che si era istituita, danneggiando l’imprenditoria messinese in modo irreversibile, mentre aspettava invano, la realizzazione di un’opera strategica, quando ormai il treno per il riscatto territoriale era perduto per sempre.
Nel recupero di documenti interessanti sulla vicenda del bacino di carenaggio posto sulla penisola falcata, appare chiaramente come si sia giunto allo scandalo. Risalendo alla fonte primaria, si riesce a dare una dimensione dei fatti quanto mai necessari per comprendere che, sia il governo centrale del regno d’Italia, sia i funzionari pubblici del ministero dei Lavori Pubblici non hanno avuto altro intento verso Messina, di spolpare la parte viva delle sue energie migliori, azzerando un tessuto ancora vivo e superstite dell’antica dinastia che l’aveva coccolata fino alla fine della storia del casato del Borbone. Quello che sfugge alla stragrande massa di consumatori di memorie del passato, sono i tempi di realizzazione di questo impianto, i relativi costi e le ripetute speculazioni finanziarie, ricadute sulle spalle di una intera comunità che si è dovuta fare carico di tante emergenze legate alla nascita di questo bacino. Una legge speciale, la De Pretis del 17 agosto 1862 aveva messo mano alla strategica posizione marittima del porto di Messina, immaginandola ancora crocevia di attività e iniziative marinare creando nel suo porto, un moderno bacino di costruzione e riparazione navale in muratura galleggiante. La spesa stimata per realizzarlo all’inizio di questa impresa fu di lire 1.500.000. Gli estremi così segnalati, sono inseriti nell’impalcato di quella legge qui riportata, estrapolando il cuore del mandato legislativo. Atti e documenti della Camera dei Deputati, Progetti di Legge. VIII Legislatura del Regno d'Italia. "Costruzione di un bacino di carenaggio nel porto di Messina". Atto C. 243-a del 3 giugno 1862. Firmatario Agostino De Pretis. (estrapolazione di una parte del documento): “I vostri commissari, lieti di vedere l’Italia fornita e prossima a fornirsi di sei bacini di carenaggio alla Spezia, di quello dei porti di Genova, decretato fin dal 1845 e costruito dal 1847 al 1851, dell’altro nella darsena di Napoli, costruito e ricostruito quasi al medesimo tempo, dei due bacini disegnati nei porti di Livorno e di Palermo, e dell’altro anche maggiore di Ancona, credono altrettanta necessaria e non meno utile in Messina la spesa presunta di 1.500.000 lire, da scompartirsi nelle quattro annate dal 1862 al 1865, assegnata sul bilancio di quest'anno la somma di 200,000 lire, che saranno comprese nei 2.497.000 lire per quelle nuove opere descritte per i servizi dei porti, siccome aveste a leggere a p. 256 dell’appendice al bilancio del 1862, e più precisamente al n° 162 quater del capitolo porti, spiagge e fari. Ma la vostra Giunta vi raccomanda eziandio questo lavoro idraulico, perché il bacino di carenaggio sarà aperto in quel terreno demaniale denominato la Piana di San Ranieri, incolto e finora inutile in forza delle servitù militari cui lo assoggettavano i baluardi della Cittadella. Né questo soltanto, ma si avrà anche a far tesoro di un edificio ormai inutile e abbandonato qual è l’antico Lazzaretto, le cui vuote stanze si muterebbero tanto utilmente in officine e conserve deputate alla conca delle carene. D’Ayala relatore.” L’individuazione delle somme necessarie per questo progetto, saranno a totale carico del municipio di Messina, visto che sulla carta il governo agiva, ma con libera e incerta apertura di credito per mandato governativo. Dalle interrogazioni parlamentari prodotte alla Camera dei Deputati, e dalle stesse discussioni, prodotte dal Senato del regno d’Italia, recupero i contributi di Paolo Spada deputato di Messina, di Giorgio Tamajo deputato di Messina, nonché di Gregorio Caccia, senatore eletto a Palermo, in rapporto alla enorme spesa per costruire il bacino messinese. Incrociando questi documenti parlamentari si riesce a trovare le direttive di un affare, da cui è possibile estrapolare la dinamica che accompagna quel lavoro. L’impianto celebrato dai messinesi come importante per una parte dei traffici della Città dello Stretto, ben presto diventa oggetto di pulsione politica, e successivamente di disagio sociale, al punto tale da temere una sommossa in città perché l’enorme peso fiscale determinato dagli anticipi di cassa, aveva avuto una ricaduta impressionante sulle imposte e tributi, aumentati del 700% rendendo la vita impossibile in città e in provincia. Il peso sostenuto dai contribuenti di Messina era tale, da assorbire quasi completamente i crediti prodotti dalle entrate tributarie del municipio e della provincia,che ammontavano a lire 175.000 in rapporto a un costo definitivo dell’opera al 1881, di poco superiore ai tre milioni e mezzo di lire.
Il dato qui segnalato è stato in parte confermato nel volume redatto da Giuseppe Martinez “Icnografia e guida della città di Messina” edito nel 1882, e ristampato e curato dal professor Franz Riccobono per P&M nel 1984, alla cui pagina 51, segnalava la cifra complessiva dell’opera (1881) di lire 3.851.583. Dai banchi del parlamento però, si parlava di spreco delle risorse pubbliche dello stato. Una situazione paradossale, che è diventata un metodo collaudato da una certa politica nazionale. Oggi, quando si discute d'infrastrutture realizzate al sud in rapporto agli elevati costi di realizzazione, si adottano le stesse dinamiche politiche. Se il metro di giudizio fonda le sue fondamenta su un'ideologia collaudata nell’arco di un secolo e mezzo, il risultato non cambia. “Rendiconti del Parlamento italiano, Tornata del 25 giugno del 1873, pp. 2858-2859, intervento al Senato rivolto al ministro dei Lavori Pubblici Menabrea dal senatore Caccia. Senatore Caccia - Potrà vedere il Senato agevolmente dalla Relazione che precede questo progetto di legge come già siamo a una quarta legge per occorrere alla costruzione del bacino di carenaggio di Messina.Quest'opera è materialmente incominciata sin da dieci anni, e con una legge del 10 agosto 1862 che stanziava per totale spesa la somma di un milione e 500 mila lire da spendere a tutto il 1864, e ora, dopo undici anni con questa quarta legge si arriverà a una spesa di tre milioni e mezzo circa, e non sarà certamente l'ultima parola di spesa. Io non saprei aggiungere null’altro a quel tanto che da tutti i lati è stato detto al signor Ministro dei Lavori Pubblici, avvegnacchè la sua diligenza e la sua sorveglianza sono già da tempo rivolte a questa interessante opera pubblica. Il signor Ministro deve essere preoccupato dei voti di un paese intero; e per l'intrinseca indole dei fatti stessi che vengono chiariti da questi ripetuti progetti.” Nelle stanze parlamentari, più volte ritornava l’affare del bacino di carenaggio di Messina, segnalando fra le altre contingenze, l’inaspettata presenza nella sede di scavo, di una sorgiva d’acqua, che dopo un anno dall’apertura del cantiere, e la realizzazione di parte della platea in calcestruzzo del bacino, era invasa da imponente affluvio d’acqua dolce, cagionandone la stabilità dello scavo.
Non poche energie furono adoperate per deviare il flusso invasore, ma non furono risolti i problemi statici del sito, che ben presto presenterà ulteriori difficoltà idro-geologiche. Le segnalazioni dei senatori e dei deputati erano rivolti alle relative incapacità degli ingegneri del Genio Civile. Funzionari voluti dal ministro in persona e dalla corona, tutti appartenenti a una loggia massonica, che evidentemente dava frutti copiosi solo a chi la proteggeva e la accomandava, per nuove imprese imprenditoriali in quella fase storica in Italia. “Rendiconti del Parlamento italiano, Tornata del 17 dicembre 1873, p. 635. Intervento del deputato Tamajo alla Camera, rivolto al ministro dei Lavori Pubblici Menabrea. Tamajo - Da molti anni nel bilancio dei lavori pubblici sono notate delle somme per la città e provincia di Messina. Spero non farà meraviglia a nessuno dei miei colleghi, nè mi si vorrà attribuire che io prenda la parola per tenermi a caro i miei elettori; ma, ben lungi da questo, il mio intendimento è che, siccome Messina fa parte integrante di questa nostra Italia, io mi trovo nella necessità di parlarne, ed un pochino anche a lungo, perchè, dopo nove o dieci anni dacché noi abbiamo votato il bacino di carenaggio (1862), bacino che forse in molte parti d’Italia e nei luoghi marittimi in quel tempo destò un pò di gelosia per il gran beneficio che ne sarebbe ridondato a Messina, dopo dieci anni, dico, invece di avere un bacino, si ebbe la rovina quasi di quel municipio e un pochino anche, per sequestri appostigli, di quella poco prospera provincia. Mi spiegherò un pò meglio. Delle sessantanove provincie del regno, una delle più disgraziate è certamente Messina; perchè noi non abbiamo avuto strade, ma abbiamo avuto promesse di molti ponti, i quali in gran parte o ancora non sono fatti o non finiti; abbiamo avuto la promessa di un bacino, torno a ripetere, il quale, dopo tanti anni e tanti esperimenti, ancora non è fatto. Si credeva da molti che questo bacino sarebbe stato fonte benefica di guadagni, come a Livorno, a non meno di 100 o 200 famiglie, ma invece, come or ora ho detto, portò la rovina al nostro municipio, perchè lo obbligano a pagare 175,000 lire per le spese fatte dal Governo, senza che il bacino ci sia. Ma io domando al signor ministro o, per dir meglio, per suo mezzo alla passata amministrazione: come è mai possibile che Messina non abbia avuto ancor nulla a causa degli sbagli enormi dell amministrazione istessa la quale incaricò della costruzione del bacino persone che senza reticenza, sapevanotanto far bacini come io posso sapere di sanscrito? Si fecero tanti esperimenti, con tanta insipienza, che fu ed ora è più difficile il rimediare al mal fatto. Sicché dal 1866, epoca in cui doveva consegnarsi il bacino, siamo al 1873, compiendo inchieste, facendo rimostranze e obbligando a pagare municipio e provincia.” Fin qui i retroscena di una spesa e di tante inadempienze che hanno lasciato un’ombra malefica sulle decisioni del ministero dei Lavori Pubblici, governato dal massone Menabrea e da tanti faccendieri a lui collegati, da pensare a una sorta di tributo oneroso assoggettato a una provincia ritenuta ricchissima, ma avara di sostanze da ritornare al governo, stimolando quest’ultimo con ripetute inchieste parlamentari fin dal 1861, a recuperare dalla piazza siciliana, un circolante espresso in moneta metallifera borbonica, pari a un miliardo di lire. Passo adesso a descrivere l’opera qui descritta dai fondi romani degli annali tecnici ossia, Annali della Società degli ingegneri e degli architetti italiani. Roma 1888 alla cui p. 264, sinteticamente, parlandoci del bacino di Messina segnalava l’impianto, compreso e dimensionato come segue: “Questo bacino ha le seguenti dimensioni : lunghezza m. 107, larghezza fra i cigli m. 25, profondità della soglia sotto comune m. 8,40. ”L’importanzadell’opera, era data soprattutto, anche dalle macchine che l’avevano costruito, all’avanguardia tecnologica a livello europeo. Situazione ulteriore d'inciampo, peggiorando il giudizio finale, in rapporto ai mezzi tecnologici per l’epoca, messe a disposizione del cantiere che materialmente ebbe costruito quel bacino. Per migliorare la tecnica della fabbrica, agevolare il lavoro, abbattere i costi fu costruito un ponte mobile galleggiante, sul modello del macchinario del porto di Tolone, in Francia, poi ripreso nel 1874 dai veneziani, che copiarono la macchina di Messina. A Tolone per economia fu costruito un ponte semovente di legno mentre, a Venezia, fu eseguito un ponte mobile mosso su binario di palafitte come a Messina in opera di legno. Differentemente della macchina francese e veneziana interamente eseguite per economia in legno, a Messina (ecco la prima traccia di spreco) la macchina, fu interamente costruita di ferro per un costo finale del solo macchinario di lire 23.000. Esso è segnalato e descritto, come un successo tecnologico delle officine metallurgiche messinesi. Tratto dal registro tecnico redatto dagli ingegneri, Nicolo Diliberto Danna, Carlo Dionisio, Antonio Pazzi, “Dei bacini di raddobbo in muratura. Relazione al Ministero dei Lavori Pubblici degli ingegneri del Genio Civile”. Estratto dal Giornale del Genio Civile, Serie 2a, Vol. II, anno 1870 alla cui p. 52, si trova quanto segue: “Oltre la minore spesa ed il minore ingombro, uno dei vantaggi principali del nuovo apparecchio dipende dalla elevazione a cui in esso si trovano situati, sopra il livello delle acque, i verricelli inservienti alla manovra delle cassette e dalla possibilità quindi che ne risulta di circolare liberamente sotto i medesimi. Ed è per ciò che, mentre nell’antico sistema il calcestruzzo caricato dapprima sopra carriole, che lo trasportavano dal luogo di fabbricazione a quello d’impiego, doveva quivi scaricarsi per essere collocato nelle cassette le quali, per la disposizione del ponte di servizio, non potevano dal medesimo distaccarsi, col nuovo sistema tale ostacolo più non sussiste, perocché le cassette, non formando più parte integrale dei verricelli, vengono da questi staccate, dopo il loro colamento e sollevamento dal fondo della conca, e collocate sopra apposite zattere mediante le quali sono trasportate ed avvicinate alla riva del cantiere di fabbricazione del calcestruzzo ed ivi caricate direttamente per esser quindi ritornate cariche ai verricelli che devono di bel nuovo sollevarle e scaricarle nel fondo. Per tal guisa, evitandosi un secondo caricamento dello stesso calcestruzzo, si ha un risparmio di spesa e di tempo ed un maggior lavoro giornaliero per ogni verricello”.
Seguendo questo pensiero, da una nota descrittiva della macchina in modo dettagliato, così specificata in una tavola perduta, ma in seguito redatta per lo stesso mezzo utilizzato nello scavo del bacino di carenaggio di Venezia, incluso nella tavola XXXIV di quel progetto disegnandolo, lo mostravano in tutta la sua complessità, tale e quale a quello di Messina, a cui s'ispirarono: “Le apprensioni che nell’atto pratico ha destate e che forse sempre desterebbe un ponte del genere di quello di cui si è fatto uso a Tolone, fosse anche costruito in ferro, la indeclinabile necessità che i pali componenti le palafitte, sulle quali il ponte deve scorrere, abbiano tutti fuori d’acqua un altezza assai maggiore di quella che sarebbe strettamente necessaria, che siano poi perfettamente allineati e le stesse palafitte esattamente parallele fra loro; ed il timore che i quattro pali sui quali d’ordinario gravita l’intero ponte, compresi i propri accessori, possano cadere, hanno dovuto suggerire l’idea di studiare un ponte il quale, mentre conservasse i vantaggi di quello di Tolone, ne evitasse gli inconvenienti. Il ponte di cui si fa uso per il bacino di Messina sembra soddisfare alle accennate condizioni. Esso è galleggiante e si compone di 5 campate di 7m,25 ciascuna. La sua parte praticabile è sorretta da 5 cavalletti, ciascuno dei quali si trova provvisto di due botti galleggianti in ferro. Il piano del ponte è munito di rotaie in ferro ordinarie e di verghe dentate sulle quali si muovono 4 verricelli ad ingranaggio destinati alla immersione degli smalti in sostituzione dei verricelli ordinari. Questi verricelli possono agire, a volontà, a semplice o doppio effetto, sono muniti di freni, ed inoltre, mediante una combinazione di ruote ad angolo, il loro movimento di va e vieni lungo il ponte si effettua con facilità dagli stessi operai addetti alla loro manovra. Le botti galleggianti sono distanti le une dalle altre tanto da permettere il passaggio delle zattere, che portano le cassette del calcestruzzo. Il movimento del ponte si opera mediante quattro rulli in legno, di cui due situati sulle sue testate ed altri due nella parte intermedia, a cui sono avvolti i cavi fissi in terra che gli servono ad un tempo di guida e di ormeggio e ne regolano il movimento longitudinale. Quindi la sua costruzione, la sua stabilità, i suoi movimenti, mentre non presentano timori nè incertezze, si mantengono dentro i limiti di una discreta economia. Lo stesso ponte è valutato circa L. 23,000”. Quasi una beffa avere la possibilità di eseguire quel lavoro con le migliori macchine per l’epoca avanzate tecnologicamente, esperite, disegnate, costruite dalle officine metalmeccaniche di Messina, antico vanto dell’impiantistica borbonica, ormai solo uno sbiadito ricordo. Da altri documenti che interessarono il mantenimento del bacino di carenaggio nel miglior ordine possibile, si riesce a recepire la segnalazione della presenza della stessa macchina rimasta in dotazione del porto di Messina, perché antieconomica; quindi un pezzo che rimanendo in loco, consentiva ulteriori applicazioni per la realizzazione delle opere collaterali, eseguite presso la penisola falcata negli anni precedenti i terremoti del 1884 e in seguito del 1908, di cui non si hanno elementi documentali per identificare il deposito della stessa macchina. Per tanto, sarebbe oltremodo interessante, discutendo di un’opera come l’antico bacino di carenaggio, esplorare i nostri archivi, per rintracciare anche la macchina che ne produsse l’impianto medesimo. (Alessandro Fumia)
Foto: di proprietà dell'autore